Esiste il libero arbitrio? Il cervello algoritmico come macchina creatrice di idoli

Il cervello funziona come una biblioteca che, giorno dopo giorno, viene riempita di “libri” e dunque di informazioni. Queste informazioni sono raccolte nella memoria e vengono poi utilizzate come modelli operativi utili per prendere decisioni.

Le tracce esperienziali recidivanti possono prendere la forma di veri e propri “idoli” cognitivi, indiscutibili e robustissimi. Essi sono capaci di imbrigliare la cognizione del singolo anche ben oltre la loro specifica causa fondativa, così erigendo tra l’io cognitivo e il mondo un vero e proprio labirinto cerebrale, costantemente proiettato a trovare ossessivamente e in ogni ambito la propria autoconferma (per una teoria filosofica sugli “idola”, cfr. Francesco Bacone, Novum Organum).

Se il flusso informativo è invece, anche solo parzialmente, eterodosso, discordante e foriero di crisi cognitiva degli “idola” di riferimento e qualora tale scompenso venga assunto radicalmente ed eticamente da parte dell’individuo che ne è colpito (secondo lo schema morale che il coro della tragedia greca vuole dai suoi protagonisti) la macchina cerebrale può essere rinnovata, consentendo la modificazione del proprio sistema calcolante di stampo probabilistico (sul modello di un teorema di Bayes o di una “machine learning”).

Questa operazione può avvenire a una condizione: che, colui il quale è stato investito dal crollo dei propri idoli algoritmici sui quali era fondato il suo cognitivo, non si rinchiuda vanitosamente in facili rifugi auto-compassionevoli, scaricando sul non io ogni responsabilità, così favorendo un facile alibi autoassolutorio.

Questa duplice alternativa comporta, evidentemente, dirette conseguenze sui percorsi decisionali dell’individuo. Nella stragrande maggioranza dei casi, il sistema-macchina non viene messo in crisi e, quando l’uomo sceglie (e di conseguenza agisce) lo fa in base a un raffronto tra una proposta proveniente dall’esterno e il bagaglio neurale già posseduto e radicato nel proprio cervello. Infatti:


“… ogni proposizione è una proposta che il destinatario può riconoscere come vera. Questo riconoscimento è una comparazione di quanto detto con ciò che già si sa o si crede: è il rinvenimento di un rapporto di identificazione tra l’enunciato offerto e la totalità o le briciole di totalità già possedute. Il concetto di verità è dunque un adeguamento di una proposta con l’universo dell’io cognitivo… non crediamo né a ciò che ci viene dimostrato vero, né a ciò che appuriamo non essere contingente: crediamo a ciò che si conforma a quanto abbiamo creduto in precedenza” (Greimas, “Il Sapere ed il Credere: Un Solo Universo Cognitivo”).


Oltre a questa funzione di archiviazione di immagini, suoni ed esperienze, il cervello è anche in grado di assegnare giudizi  (positivi o negativi) a questo flusso di notizie: è l’attività dei neurotrasmettitori (dopamina, serotonina, ecc.).

Questo impianto cerebrale interagisce costantemente con il DNA e l’apparato sensoriale dell’individuo. Il complesso di queste funzioni biologiche ha un effetto emergente: determina il fare e il decidere dell’uomo. Ogni istante della vita umana è una decisione, dalle più semplici alle più complesse. Per svolgere questa funzione cognitiva e di comando, il cervello deve “fidarsi di se stesso”, sfruttare le conoscenza immagazzinate e da esse prendere spunto per il fare.

Per questo il cervello è uno strumento tendenzialmente deterministico, computazionale e meccanicistico. In sostanza: raccoglie le sfide dall’esterno e sceglie, all’interno della propria banca dati, la forma di esperienza memorizzata che viene ritenuta quella più idonea, simile e utile per risolvere la sfida stessa. In questo modo il cervello compie, di continuo, previsioni, calcoli statistici e approssimazioni probabilistiche.

La psicologia cognitiva definisce euristica questa modalità statistico-comparativa tra dati. Il problema dell’errore euristico può essere facilmente ingenerato dall’impossibilità per il decidente di attingere a soluzioni differenti da quelle contenute nel database neurale; ne discende che il cervello può scegliere un dato errato o inadatto per una specifica sfida.

Se l’euristica è errata si ha un “bias” cognitivo, cioè dire un errore di valutazione e comparazione tra proposta e traccia neurale di riferimento. Sfruttando il metodo dell’euristica, il cervello lavora “a basso consumo energetico” e può rispondere a più sfide, anche contemporaneamente. Questa struttura cognitiva porta con sé una conseguenza determinante: ancorchè il cervello sia “plastico” e dunque sempre soggetto a modificazioni (come una “machine learning” che impara implementando nel proprio database le nuove informazioni) il sistema euristico incentiva le decisioni recidivanti, così da evitare soluzioni nuove e diverse rispetto a quelle sperimentate.

Per certi versi si può affermare che il cervello tenda a “sclerotizzarsi” su se stesso, sulla ripetizione delle risposte date e sui percorsi cognitivi consolidati. I neurotrasmettitori hanno una funzione determinante in questa costruzione “a catena” delle decisioni umane: questa sorta di “rating” neurale delle esperienze aumenta infatti la probabilità che il cervello replichi le medesime risposte.

“Craving” e “addiction” sono due definizioni tipiche per illustrare la dipendenza da sostanze stupefacenti ma entrambe possono essere utilizzate per comprendere il cervello umano e il suo funzionamento. Il cognitivo di ogni individuo è, infatti, auto-replicante e costantemente teso a riprodurre quei percorsi neurali già sperimentati e dunque sicuri (non importa se giusti o sbagliati, proficui o svantaggiosi). Il cervello pensante è proiettato verso l’esterno ma, in realtà, è immerso costantemente in un labirinto di specchi che lo riconducono compulsivamente al proprio interno.

L’uomo si illude di decidere liberamente in base a quanto accade al di fuori del corpo del decidente ma, in realtà, le sfide della vita, vengono fagocitate dal sistema cognitivo soggettivo e travisate dai riferimenti euristici personali.

Il cervello decide in ragione delle informazioni in esso già inserite: l’esperienza, l’apprendimento e l’accettazione delle idee contrarie al proprio vissuto cognitivo, sono dunque auto-limitanti ma rappresentano anche la linfa vitale per il cervello, favorendo la sua plasticità e dunque offrendo nuovi spazi computazionali per la “machine learning” cerebrale. L’uomo risulta così una macchina assai simile a una intelligenza artificiale, che tendenzialmente replica il proprio algoritmo decisionale.

L’errore di Cartesio (come scrive Damasio) è stato quello di dividere il mondo tra “cosa pensante” e “cosa estesa”. Quest’ultima sarebbe una “res” da misurare, calcolare e dominare, mentre il “cogito” sarebbe qualcosa di impalpabile e vagamente spirituale, oltre che esclusivamente umano. Le scienze cognitive hanno dimostrato che anche la cosa pensante è una “res” estesa e fisica (i neuroni, i neurotrasmettitori, il codice genetico e i sensi). Questo sta a significare che non possono esistere stati mentali differenti da stati fisici.

Ogni campo del pensare e del fare è dominato dal cervello biologico costruito da pezzi di un ideale puzzle fisico e chimico. Il combinato disposto tra materia grigia, DNA, dati sensoriali e neurotrasmettitori, imbriglia l’essere umano a un insieme di funzioni biologiche deterministiche e computazionali che sono il “pilota automatico” del fare.

La cognizione umana, possedendo nelle sue forme cerebrali superiori, un sistema algoritmico deterministico e probabilistico-bayesiano, è ontologicamente un cyber e tende a formare statuti astratti e forme di intelligenza artificiale esterne per leggere e dominare il mondo secondo la propria prospettiva.

Ne consegue che il libero arbitrio, tradizionalmente inteso, non esiste: ciascun individuo, ha un sistema cerebrale diverso da chiunque altro e nessuna biblioteca neurale è replicabile.


Si tratta della negazione dell’imperativo categorico kantiano, architrave ideologica del concetto illuminista di libero arbitrio.

L’imperativo categorico e il libero arbitrio presuppongono la possibilità, in virtù di una supposta ragione umana, che ogni individuo, al momento del decidere, possa scegliere per sé, come farebbe qualsiasi altro individuo chiamato ad agire in quella specifica situazione. E’ evidente che ciò sarebbe possibile solamente qualora tutti i cervelli possedessero le stesse armi cognitive (dunque la stessa biblioteca esperienziale) e il cognitivo personale non fosse limitato nell’angusto perimetro del proprio labirinto neurale.

L’uomo si illude di poter decidere della propria vita senza condizionamenti che lo rendono una sorta di automa replicante di se stesso.


All’essere umano, come tradizionalmente inteso, residua solamente una certa dose di libertà in merito alla decisione su come impostare la propria vita. Decidere un determinato stile di vita vuol dire scommettere sull’edificazione di un impianto biologico che, al momento del fare, possa offrire la migliore forma euristica di riferimento.

Il “logos”, la razionalità, la saggezza, non sono dei “kit” pronti all’uso, predeterminati dalla natura, che possono essere estratti da un mitico cilindro della coscienza al momento del bisogno. La costruzione valoriale è un progetto di vita e un continuo lavorìo sulla propria identità.

Socrate ha insegnato la necessità di conoscere se stessi. In chiave neuro-scientifica ciò vuol dire comprendere i propri limiti, per padroneggiare le proprie possibilità.


Questa prospettiva dai tratti esistenzialisti trova scaturigine da una lettura rinnovata del rapporto tra potenza e atto, elementi cardinali dalla tradizione filosofica aristotelica.

La dialettica confliggente tra questi due poli (la potenza come espressione del cognitivo e l’atto come espressione del fare) trova difficilmente una composizione armonica.

L’uomo è un animale prometeico che non agisce nel rispetto della propria potenza, facendo propri i suoi limiti. Nella stragrande maggioranza dei casi l’individuo è portato, faustianamente, ad esondare dai confini della propria potenza, nella convinzione onnipotente di poter dominare il mondo. L’unica possibilità che l’essere umano ha di poter implementare il proprio bagaglio d’azione è quella di fortificare, rafforzare ed accrescere la potenza, così da allargarne il confine ed il limite e guadagnare spazi d’azione, rispettosi dell’armonia tra potenza e atto (in ossequio al precetto dantesco “foste non fatti per vivere come bruti ma per seguire virtute e cagnoscenza”).

Anche in questa prospettiva l’uomo e la sua cognizione dimostrano di essere una macchina computazionale che funziona sul modello di una “machine learning”, che deve essere costantemente alimentata e rinnovata; la libertà dell’individuo risiede nella possibilità di scegliere “l’alimento neurale” migliore per il proprio impianto cerebrale. La progressiva formazione di comunità sempre più ampie, ha imposto la creazione di sistemi capaci di sfidare la soggettività cognitiva, così legata alla formazione neurale dei singoli.

La cultura occidentale, più di ogni altra, ha saputo ovviare a questi difetti cognitivi dei singoli individui escogitando dei modelli euristici astratti e concorrenti con quelli personalistici e così assicurando dei sistemi meta-individuali il più possibile immutabili ed universalmente validi. In questo modo l’uomo ha cessato di essere “misura di tutte le cose” (come sostenuto dai sofisti della Grecia antica) proiettando il proprio cognitivo verso costrutti virtuali e certi (secondo lo schema inaugurato dalla metafisica classica).
https://laltracampana.guidoferrario.org/2019/09/26/esiste-il-libero-arbitrio-il-cervello-algoritmico-come-macchina-creatrice-di-idoli/

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